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Disruptive technologies e impatto sul lavoro – Clouds&Training

Disruptive technologies e impatto sul lavoro

Il 2007 è un anno decisivo nel rapporto tra evoluzione tecnologica e sviluppo industriale: è l’anno del lancio sul mercato dell’iPhone. Da allora possiamo dire che il mondo è cambiato.

Il 2007 è un anno decisivo nel rapporto tra evoluzione tecnologica e sviluppo industriale: è l’anno del lancio sul mercato dell’iPhone. Da allora possiamo dire che il mondo è cambiato.

Gli Smartphone si sono trasformati in mobile computer in piena regola: motori capaci di creare Big Bang disruptor, processi di altissimo cambiamento imprenditoriale e sociale. Oggi esistono nel mondo più di 5 miliardi di cellulari evoluti, su un totale di quasi 8 miliardi di telefonini (secondo il Mobility Report 2018 di Ericsson). Nel 2017 sono stati acquistati 1,5 miliardi di Smartphone. Tutti questi numeri stordiscono, e possono valere poco se presi singolarmente. Quello che è importante è valutarne la portata in una cornice ampia e coerente.

Un altro fattore di accelerazione è la pervasività delle nuove tecnologie: la radio impiegò 38 anni per raggiungere la diffusione di 50 milioni di utenti, l’Ipod solo 4, Facebook 1 anno (e oggi raggiunge quasi due miliardi di persone in tutto il mondo). L’iPhone ha venduto, alla sua uscita, 74 milioni di esemplari in 4 mesi.

Questo successo è anche il sintomo della fiducia che riponiamo nella tecnologia. Il fondatore di eBay Pierre Omidyar ha affermato: «gli utenti hanno di Ebay imparato a fidarsi di persone totalmente sconosciute». Oggi tutti ci fidiamo delle tecnologie alla base di eBay o di Airbnb.

“Lo sviluppo della fiducia on line è un prodotto di algoritmi. Nonostante la distanza tra gli interessati, non si tratta di fiducia concessa alla cieca. È anzi l’esatto contrario, grazie alla registrazione della reputazione di venditore e acquirente, in un sistema di feedback a due sensi monitorato dai gestori della piattaforma” (Alec Ross, Il nostro futuro).

E la tecnologia Blockchain, che autocertifica l’autenticità di ogni transazione, sarà applicata anche in altri campi in cui avviene la stipulazione di un accordo o di un contratto.

L’economia della condivisione crescerà e si allargherà a molti altri settori.

Secondo Charlie Songhurst, esperto di tecnologia e società “grazie alle piattaforme, la Valley è diventata ricca come l’antica Roma. Raccoglie tributi da tutte le sue province. Il tributo è il fatto che il business di queste piattaforme appartiene a lei. Gli annunci economici, in Italia, un tempo comparivano sulle pagine dei giornali cittadini. Oggi vanno su Google” (Alec Ross, Il nostro futuro).

Le fondamenta del nostro sistema economico-sociale sono state costruite su un forte legame tra creazione di lavoro e creazione di valore. La crisi economica degli ultimi anni ci ha fatto comprendere come questo rapporto si sia incrinato. La rottura non è soltanto la conseguenza della recessione, ma il segnale sintomatico di un mutamento strutturale della natura della produzione.

Le tecnologie disruptive hanno ridotto in modo drastico il costo dei prodotti e il numero della forza lavoro impiegata, rendendo possibile vendere nuovi prodotti e servizi a prezzi più convenienti rispetto ai concorrenti già attivi sul mercato. Sono andate in crisi industrie leader un tempo inespugnabili come Polaroid o Kodak; altre hanno perso il loro ruolo predominante (IBM). Questa rivoluzione miete vittime anche tra le stesse aziende tecnologiche: Blockbuster, Nokia, BlackBerry, per esempio. Tra il 2008 ed il 2012 il fatturato di Tom Tom, un’importante azienda di navigatori satellitari, si è ridotto oltre la metà, a beneficio di new incomers come Google.

Le grandi imprese sono incagliate in investimenti che obbediscono a vecchi modelli. E hanno poca propensione al cambiamento. Le tecnologie digitali cambiano rapidamente, ma le organizzazioni e le competenze non riescono a tenere il passo. Di conseguenza, milioni di persone rischiano di restare indietro.

Certo, la tecnologia non è indifferente alla competenza. La disoccupazione rischia quindi crescere negli strati sociali con bassa scolarità o competenze generiche. Il problema cruciale è creare nuovi mestieri che gli uomini riescano a fare meglio degli algoritmi. Far nascere nuove professioni e nuovi lavoratori, che si offriranno sul mercato senza intermediari, ma saranno anche senza protezioni. Per non essere esclusi dal mercato, i lavoratori dovranno continuare ad apprendere nel corso delle loro vite e reinventare costantemente la propria attività. (Yuval Noah Harari, Homo Deus).

Il fenomeno delle imprese disruptive non riguarda soltanto il mercato del digitale, ma ogni comparto. Queste imprese non condividono un approccio tradizionale al servizio clienti o non intendono copiare linee di prodotti già esistenti: non fanno la gara sui competitors, ma inventano nuovi prodotti e nuove regole di mercato. In molti casi, infatti, stanno semplicemente lanciando l’amo nella direzione dei clienti delle imprese tradizionali, e attirarli verso business completamente diversi (come nel caso di Amazon, che ha cominciato ad offrire servizi finanziari alle imprese).

La multinazionale tipo del Novecento era una mega azienda, dagli alti costi fissi e con migliaia di dipendenti. Il XXI° secolo darà vita invece a migliaia di piccole multinazionali, dai costi fissi bassi e con pochi dipendenti, sostengono gli studiosi Brynjolfsson e McAfee.

Per far fronte a un’evoluzione così rapida delle strutture di mercato, le imprese devono essere pronte non tanto ad avere esperti digitali più qualificati quanto a riorganizzare interi processi di produzione e addirittura interi settori.

La soluzione è innovare l’organizzazione: inventare modelli, strutture e processi aziendali, che sfruttino al meglio le nuove tecnologie e facciano leva sulle competenze.

Investire in capitale umano è quindi il secondo, inderogabile passaggio.

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